L’uso dell’AI e il caso “Tokyo Simpathy Tower” di Rie Qudan
Oggi parliamo del Libro vincitore del premio Akutagawa 2024, il più prestigioso riconoscimento letterario giapponese.
A differenza del nostro premio Strega, che inevitabilmente, risente delle dinamiche dettate dal marketing (tant’è vero che quest’anno ha destato scalpore il fatto che tra i dodici finalisti non ci sia neanche un Einaudi, a favore di case editrici piccole e indipendenti ) l’Akutagawa è invece lontano da questo tipo di logiche… insomma è decisamente più meritocratico diciamocelo e tende a premiare le voci emergenti più interessanti e di rottura della narrativa giapponese, a discapito di autori già affermati e, quindi, più noti.
Nel 2024 è stato premiato “Tokyo Simpathy Tower” della scrittrice Rie Qudan.
Al momento del ritiro del premio, con un candore sconcertante, l’autrice ha sganciato la bomba: ha dichiarato di aver lavorato a questo romanzo in scrittura cooperativa con l’AI.
Ebbene sì ha usato chat GPT, e il mondo è esploso…ma aspettate.
È vero che l’AI è stata utilizzata, ma solo per la stesura di quelle parti in cui la protagonista effettivamente dialoga con un AI, parti che hanno lo scopo di parlare di AI… insomma un uso che è del tutto sensato e contestualizzato.
Eppure il mondo dell’editoria ha urlato allo scandalo.
Se ci aggiungiamo poi che Tokyo Simpathy Tower non è un romanzo che mette a suo agio il lettore inevitabilmente abbiamo un libro che non può non essere almeno interessante.
Veniamo allora alla trama.
In un futuro prossimo alternativo, intorno al 2030, ambiguo tanto che non capiamo se siamo in una distopia o in una ucronia, la giovane architetta Makina Sara si è aggiudicata il progetto per una torre-prigione che dovrà sorgere dinnanzi allo stadio olimpico di Zaha Hadid. I detenuti vi verranno accolti con ogni premura, affinché il loro status di Homo miserabilis, cui sono giunti in quanto vittime di un ambiente ostile, sia riscattato da una diffusa empatia sociale.
Sulla base della filosofia dello Stato giapponese infatti la criminalità nasce da una condizione di svantaggio sociale e pertanto il reo deve essere degno di empatia estrema e inserito in una condizione di privilegio sociale. La torre quindi è un grattacielo meraviglioso dotato di ogni comfort e lusso.
Ci ritroviamo quindi a dover digerire il fatto che un assassino che ha sterminato la propria famiglia secondo questa filosofia, “poverino”, viene messo in una spa per toglierlo dallo svantaggio sociale che lo ha reso, appunto, un assassino e già questo rende il romanzo disturbante ad un primo livello.
Nel corso del romanzo, l’incontro con l’amato Tōjō Takuto, di 15 anni più giovane, aiuterà Sara a mettere a fuoco il suo lavoro e a orientarsi nella Tokyo del futuro mentre la narrazione segue la genesi della Torre.
Il tutto si snoda quindi tra i pensieri della protagonista, i dialoghi con l’amante e appunto i dialoghi con l’AI che tanto scalpore hanno provocato.
L’interrogativo di fondo è infatti quello della perdita identitaria dell’uomo di fronte alla modernità: emblema di questo tormento è la repulsione che la protagonista prova per il nome anglofono della torre in luogo di quello giapponese così come il ribrezzo che Sara prova di fronte alle risposte asettiche dell’AI.
L’AI non è in grado di correggersi, le sue parole sono vuote, ma è un vuoto confezionato bene che però è solo irritante e scomodo… così come volutamente scomodo è leggere questo libro che in fin dei conti… vuole effettivamente farci riflettere e, forse, metterci anche in guardia.
Insomma, tutte le polemiche e lo scalpore che tanto l’uso dell’AI per delle parti comunque ridotte è assolutamente contestualizzate forse dovrebbero essere lasciate da parte per concentrarsi su quello che realmente Rie Qudan voleva farci chiedere.
Vi lascio alla lettura per non dirvi di più e al prossimo numero di Billy!!!